sabato 7 marzo 2009

L'ultima volta [6ª PARTE]

L'agente Tore Pinna aveva dietro di se una storia molto particolare. Ultimo di cinque figli, aveva vissuto i primi diciotto anni della sua vita nell'entroterra sardo, dove aveva compreso fin dall'infanzia i concetti dell'onore e del rispetto. Poi aveva scelto di fare lo sbirro. In realtà quel lavoro non gli era mai piaciuto, ma era stato l'unico modo per evadere dal campanilismo di una società chiusa, in cui non avrebbe avuto nessun tipo di futuro. Ogni tanto sognava le sue montagne e il suo paesetto di trecento abitanti, in cui aveva abbandonato la dimensione umana per essere fagocitato dalla grande città.
Quel lavoro lo stava lentamente logorando, se ne rendeva conto giorno dopo giorno. Gli anni della speranza, dell'ottimismo e della scoperta avevano lasciato il posto a quelli della rassegnazione, del passivismo e della rinuncia.
Ormai, si era rassegnato. Svolgeva sempre gli stessi compiti, comandato a bacchetta da quello stronzo di Stigazzi, in un susseguirsi di giornate uguali e senza senso. Ma c'era una cosa che Stigazzi non aveva assolutamente previsto: in dieci anni di onorato servizio Pinna aveva riordinato e archiviato tanto di quel materiale da essersi reso conto, mese dopo mese, anno dopo anno, che quel fottuto bastardo di Stigazzi era corrotto fino al midollo. Ormai conosceva nomi e cognomi di tutti i suoi scagnozzi. Di me non si preoccupa, pensava rabbioso Pinna. Mi considera uno stupido, un inetto, un bravo esecutore di ordini.
Stigazzi avrebbe scoperto a sue spese che l'agente Tore Pinna non era per niente innocuo, e tutti quegli anni di sottomissioni e silenzi forzati lo avevano lentamente trasformato. La vendetta è un piatto che va consumato freddo. E Tore Pinna aveva già aspettato abbastanza.
Pinna diede uno sguardo all'assassino, e poi si rivolse verso Stigazzi. Il killer aveva riposto la pistola, e Stigazzi era talmente sicuro dell'innocuità di Pinna, che gli dava le spalle, ignorandolo. Doveva fare in fretta: questione di secondi, e l'avrebbero fatto fuori. Stigazzi non si sarebbe messo problemi a sbarazzarsi di lui.
Con una mossa repentina, Pinna tirò fuori la pistola d'ordinanza, si allontanò di qualche passo e sparò due colpi in rapida successione. La sua mira era infallibile: colpì il ginocchio di Stigazzi, che cadde in avanti, travolgendo l'assassino. Approfittando del momento di caos, salì nella macchina ancora accesa, e si dileguò. Nella faccia del commissario si dipinsero prima sgomento, e poi rabbia. Rabbia e indignazione.
«Ma che cazzo hai fatto Pinna? Tu non hai idea del casino in cui ti sei appena cacciato!!» urlava Stigazzi alla volante che, stridendo le gomme nell'asfalto, per poco non lo travolgeva.
Pinna aveva già capito cosa avrebbe dovuto fare. Era ora di finirla, una volta per tutte. Si ricordava i nomi, gli indirizzi, e addirittura i numeri di telefono. Stigazzi ha le ore contate, pensò con un pizzico di soddisfazione. Le conosceva, le regole. Regola numero uno: chi sbaglia è morto. Regola numero due: chi tenta di fottere don Luciano, è morto due volte.
Spinse il pedale dell'acceleratore a tavoletta. Si guardò nello specchietto retrovisore, non riconoscendosi. La gente cambia, pensò, e il povero coniglio bastonato si è trasformato in un lupo. Un lupo assetato di sangue. E di vendetta.

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