giovedì 3 febbraio 2011

L'ultima volta [17ª PARTE]

Il cancello della villa di don Luciano si aprì non appena arrivò la macchina del Contabile e del Macellaio. Il giardino era in stato di semiabbandono e i muri esterni della casa avrebbero avuto bisogno di una bella riverniciata: in alcuni punti addirittura l'intonaco cadeva a pezzi. Ma i due sapevano che l'apparenza inganna, e che dentro quella casa era custodito un patrimonio di  inestimabile valore. Era una copertura. Nessuno, eccetto pochi eletti e una decina di guardie del corpo, conosceva il luogo in cui abitava don Luciano, e nessuno si aspettava di trovare un plurimilionario in una casa come quella. Appena entrati si veniva abbagliati dalle luci di innumerevoli lampadari di cristallo e i pavimenti in marmo riflettevano la luce dando l'impressione di camminare sull'acqua. Quella che da fuori poteva quasi sembrare una casa disabitata, da dentro era la degna dimora di un sultano.
Seduto in una delle poltrone del salotto, davanti al caminetto acceso, don Luciano aspettava che i due giungessero da lui. Detesto gli imprevisti. Quando ero più giovane una cosa del genere non mi avrebbe dato fastidio più di tanto, ma oramai gli anni son passati. E io non potrò continuare per sempre a occuparmi di tutto da solo. Se solo avessi avuto un figlio a cui lasciare il mio impero. Avrei dovuto da tempo trovarmi un braccio destro. Sul Contabile so di poter fare affidamento, ma non ha il carattere giusto per questo lavoro. È capace di mandare a monte un affare solo perché si è svegliato col piede sbagliato. E poi ha una certa età anche lui, ormai. Anche sul Macellaio so di poter contare. Ha fatto tanti di quei lavori per me... Ma è uno psicopatico. Non sarebbe in grado di reggere le redini del mio impero. E così non mi posso ancora riposare, e devo risolvere da solo tutti i problemi della nostra grande Famiglia.

Nella stanza entrarono il Contabile e il Macellaio.
Parlò il Contabile: «Buonasera don Luciano, ci scusi per questa terribile situazione.»
Don Luciano rispose col suo tono profondo e privo di emozioni: «Sedetevi, non restate lì in piedi e vediamo di risolverla, questa situazione. Solo alla morte non c'è rimedio, non ve l'ha mai spiegato nessuno? Adesso arriveranno prima il commissario Stigazzi col Carogna, e poi questo signor Pinna che dice di sapere tante cose. Ammesso che si chiami davvero così. Il Carogna, ormai, non ci serve più. Macellaio, dovrai occupartene appena arrivano. È da troppo tempo che è più dedito al bere che a seguire i nostri affari. Poi vedremo queste clamorose prove che ci deve mostrare il signor Pinna, e deciderò cosa fare.»

Poco dopo giunsero nella stanza il commissario Stigazzi e il Carogna, scortati dalle tre guardie che li avevano accompagnati in macchina. Avevano il capo coperto con un sacco, precauzione presa per evitare che capissero dove si trovavano.
«Scopriteli», ordinò don Luciano. Nei volti dei due si dipinse un misto tra paura e stupore. Con gli occhi sbarrati fissavano don Luciano.
Questo è don Luciano, pensò Stigazzi, e questa è la mia ultima occasione. Gli devo far capire che Pinna sta cercando di fotterlo. Se sono fortunato me ne andrò via con un "grazie" e poi... Arrivederci, don Luciano! Fottiti tu e tutti i tuoi dannati scagnozzi, io me ne vado in Svizzera e ti saluto! Involontariamente sorrise. Una smorfia, più che un sorriso.
«Cos'hai da ridere, Stigazzi?»
«No, don Luciano, non sto ridendo... è solo che... mi fa male la gamba... posso spiegarle tutto: Tore Pinna mi ha sparato, è un agente che lavora con me, e ci vuole incastrare... vede, lui sa delle cose che io... cioè che noi... ehm...»
«E dimmi, Stigazzi, come farebbe un agente semplice della polizia a sapere "delle cose"?»
«Ehm... non so... probabilmente mi ha spiato, oppure, non so...»
«Capisco.» Rivolgendosi alle due guardie di scorta: «Accompagnate Stigazzi nella sala B e il Carogna nella sala C.» Il Contabile e il Macellaio si scambiarono un'occhiata di intesa. Sapevano che nel seminterrato della casa di don Luciano c'erano tre sale: la sala A, in cui c'erano i monitor di sorveglianza di tutta la casa, era la più grande. Si poteva vedere e sentire tutto quello che succedeva nelle altre tre sale. C'erano inoltre numerosi computer e altre attrezzature tecnologiche che permettevano di intercettare telefonate, movimenti bancari, ecc. La sala B, chiamata anche il Limbo, era il posto in cui venivano portati quelli che erano in attesa di giudizio. La sala C, invece, voleva dire morte. Era completamente insonorizzata, e sarebbe potuta esplodere una granata senza che all'esterno si sentisse il benché minimo rumore. Ma la morte, nella sala C, era di due tipi: la morte veloce, e indolore... e la morte lenta. C'erano infatti una quantità immensa di strumenti di tortura, dalle pinze per strappare unghie e denti, a macchinari più sofisticati che riuscivano a far soffrire un prigioniero per ore e ore senza farlo morire, né svenire.
Dopo che il Carogna e Stigazzi furono portati via, don Luciano si rivolse al Macellaio: «Ora vai dal Carogna, ma fai una cosa veloce e torna subito.» In meno di un minuto, il Macellaio era già di ritorno.

È l'ultima mano, pensò Tore Pinna cercando di non soffocare dentro il cappuccio scuro che gli era stato legato un po' troppo stretto. Spero di giocarla bene. Se mi hanno messo il cappuccio, vuol dire che non vogliono che sappia dove si trova la dimora di don Luciano. E se non vogliono che sappia, magari potrebbero volere che sopravviva. Ho perlomeno una possibilità di sopravvivere. O forse morirò in ogni caso. Ma non prima di averla fatta pagare a quel pezzo di merda di Stigazzi.
La macchina si fermò. Il motore si spense. Arrivati. «SCENDI!» gli urlò una voce imprecisata... una delle due guardie, chiaramente. Scese dalla macchina. Aveva ancora il cappuccio e le mani legate. Gli slegarono le mani ma gli lasciarono il cappuccio. Sto iniziando seriamente a soffrire di claustrofobia, o forse sto semplicemente morendo soffocato. Le due guardie lo presero: una a destra e una a sinistra. Poi sentì il rumore di una porta che si apriva. Una porta grossa... di quelle pesanti. Ancora altra strada. Probabilmente aveva attraversato cinque o sei stanze, non poteva esserne sicuro. Poi sentì un vociare che si avvicinava sempre di più. Lo scoppiettio di un fuoco. Le due guardie si fermarono.
«Toglietegli il cappuccio, e andate a controllare l'ingresso», ordinò don Luciano.
Tore Pinna pensò di non aver mai visto così tanta luce tutta in una volta. Impiegò qualche secondo prima di riuscire a distinguere le forme... e le persone. C'era il Macellaio. C'era il Contabile. E c'era un distinto signore. Già avanti con gli anni... Settanta? Settantacinque? Qualcosa del genere insomma. Questo è don Luciano, mi gioco i coglioni.
«Tore Pinna. Sei sardo?»
«Si, signore.»
«Immaginavo. È bella la Sardegna. Io ci son stato quand'ero più giovane. Ma adesso...» Don Luciano sospirò. «Adesso dammi una buona ragione per non farti uccidere subito. Stigazzi ci ha detto che lo hai spiato.»
«È vero.»
«E poi ha detto che stai seguendo un'indagine... per farci arrestare! Ah ah ah!» Don Luciano scoppiò in una fragorosa risata. Il Contabile e il Macellaio risero anche loro, forzatamente.
«No, signore. È lui che sta facendo il doppio gioco. Ha avuto contatti con un'organizzazione spagnola. Vende a loro la roba che sequestra a voi. O, meglio, gliela passa e si prende una percentuale.»
«E io dovrei crederti?» Don Luciano sembrava perplesso. Mai, nella loro vita, il Contabile e il Macellaio avevano visto don Luciano perplesso. Di solito il suo volto non tradiva emozioni. La sua voce aveva sempre lo stesso tono basso e costante. Ma questa volta...
«Si, deve credermi. Posso dimostrarglielo.» Tore Pinna mise una mano nella tasca della giacca, e si ritrovò la pistola del Macellaio e quella del Contabile puntate alla testa.
«Giù le pistole, fate i bravi ragazzi», li esortò don Luciano, «non può avere niente di pericoloso. È già passato per il metal detector prima di entrare. Ed è già stato controllato dalle guardie. Su, facci vedere il tuo asso.»
Tore Pinna tirò fuori una penna usb, di quelle che si comprano al supermercato per dieci euro.
«E questa che roba è? Uno scherzo? Guarda che non sono in vena di scherzare, giovanotto!»
«Queste son le prove... o meglio, parte delle prove. Il resto è a casa mia, ma questo è sufficiente per dimostrarle che non sto mentendo. Ci sono i rapporti della polizia sulla merce che le è stata sequestrata negli ultimi due anni, e i rapporti sui movimenti del commissario Stigazzi su un conto che ha aperto in Svizzera. Le date coincidono: ogni volta che lei perdeva della merce, lui incassava del denaro e lo depositava in Svizzera.»
«Allora andiamo nella sala A. Vorrà dire che male che vada, dalla sala A passerai direttamente alla sala C, in compagnia del Macellaio.» Tore Pinna non capì del tutto quell'affermazione, ma pensò di aver intuito abbastanza.

Dopo che arrivarono nella sala A, il Contabile appurò la veridicità delle affermazioni di Tore Pinna.
«Don Luciano... È tutto vero. Stigazzi ci sta fregando. Queste ricevute sono autentiche, questi rapporti sono autentici», disse il Contabile.
«Sei sicuro?» chiese don Luciano.
«Assolutamente, si.»

Regola numero uno: chi sbaglia è morto. Regola numero due: chi tenta di fottere don Luciano, è morto due volte. 
Don Luciano andò nella sala B, dove Stigazzi aspettava la sua sorte. Aprì la porta.
«Don Luciano! Non so cosa vi abbia raccontato quel...»
«Stai zitto schifoso fetente. Tu ci hai tradito. Hai tradito la nostra Famiglia. Noi ti abbiamo dato il cuore, e tu ci hai ripagato così.» Tirò fuori la pistola. «E adesso, lo sai che succede a chi tenta di fottere don Luciano?»
«No, ma... Don Luciano, è uno sbaglio!» Stigazzi tremava.
«Si, è uno sbaglio. Il tuo sbaglio!» Don Luciano gli sparò a una gamba. A quella gamba a cui già aveva sparato Tore Pinna qualche ora prima. Il dolore fu lancinante.
«Non mi uccida la prego...» piagnucolò Stigazzi.
«Ucciderti? Ti piacerebbe... No, non ti uccido.»
Don Luciano uscì dalla sala B. E rientrò nella sala A.
«Macellaio, porta Stigazzi nella sala C.» Sala C, morte... «E fai un bel lavoro. Un lavoro dei tuoi. Lento. Senza fretta. Voglio godermi la scena.» Don Luciano si sedette su una poltrona, schiacciò un pulsante, si abbassarono le luci e si accese un proiettore.  Come al cinema, pensò Tore Pinna.
«Sedetevi, e gustatevi anche voi lo spettacolo.»
Ciò che seguì fu straziante. Ma anche piacevole. Tore Pinna, inizialmente spaventato, provò uno strano senso di soddisfazione nel vedere il commissario Stigazzi prima piangere come un bambino, poi gridare e supplicare pietà e infine chiedere di morire. Lo "spettacolo" durò due ore e mezza. Poi finì.

«E adesso», disse don Luciano, «mi dispiace, caro Tore Pinna, ma devi morire anche tu.»
A Tore Pinna si raggelò il sangue nelle vene.

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